Perdonare
Perdonare è assolvere?
Perdonare è dimenticare? Perdonare è rassegnarsi?
Quando si parla di riuscire a perdonare qualcuno a cui siamo legati e che ci ha fatto del male, ci chiediamo se sia giusto farlo, se quella rabbia che sentiamo dentro di noi troverà mai sollievo. Quella persona ci ha ferito, come dovremmo reagire a ciò che ci ha fatto? Dovremmo continuare a lottare per risarcire il nostro dolore o intraprendere la strada del perdono?
Quando qualcuno ci ferisce sentiamo rabbia, in modi più o meno consapevoli. C’è chi dopo aver subito una ferita si arrabbia visibilmente, è in battaglia aperta, con le parole e con gli atteggiamenti e chi vive quella rabbia in modo silenzioso, con tristezza, abbattimento, comportamenti passivo-aggressivi o auto-distruttivi.
Quando in una relazione la rabbia diventa un’emozione prevalente, che sperimentiamo in modo cronico, siamo legati intimamente all’altro nella costruzione di un legame che ci mantiene uniti e ingabbiati nella sofferenza. Vorremmo cancellare quel dolore ma intanto la rabbia che sentiamo trova continuamente nuovi modi per esprimersi.
Così si cerca di correre al riparo dalla sofferenza, negando il dolore mediante l’oblio o tentando disperati tentativi di ripararazione attraverso una vendetta che ci ripaghi del torto subito. Nella vita reale però, le memorie non possono essere cancellate. E proprio per questo, il primo passo per riprendere il controllo della nostra rabbia non può essere che una visione consapevole, un modo di agire che ci permetta di ritrovare la nostra libertà, di perdonare.
Questo non vuol dire necessariamente che saremo pronti a riaccogliere amorevolmente nella nostra vita la persona che ci ha fatto del male. Il perdono comporta una chiara visione delle cose e alla luce di questa può portare a una posizione definitiva nei confronti dell’altro, di avvicinamento o di allontanamento.
Ma cosa vuol dire perdonare?
Può esserci d’aiuto, per non incappare nel senso comune che intende il perdono come un semplice atto di benevolenza verso l’altro, riferirsi ai concetti greci di “aphiemi” (ἀφῑ́ημῐ • (aphī́ēmi) e di “hilaskomai” (ῑ̔λᾰ́σκομαι • (hīláskomai), termini che troviamo riferiti al perdono nel testo del Nuovo Testamento.
Aphiemi nel greco antico ha il significato di lasciar andare una persona, mettere in libertà, sciogliere, mentre il termine hilaskomai sta ad indicare il conciliarsi con se stessi, placando il Dio irato.
Il perdono è un atto volontario, una scelta ripetuta nel tempo che ci impone di guardare tutto chiaramente, consapevolmente. Di vedere il nostro dolore e conoscere meglio chi ce l’ha procurato.
Lo psichiatra e ricercatore Richard Balkin, in una illuminante esposizione dei suoi recenti studi sul processo del perdono, sottolinea che la rabbia è un’emozione che fonda le sue radici nella paura. La paura di vedere la nostra vulnerabilità.
Nel video, Balkin illustra la sua idea delle fasi del perdono che includono due percorsi diversi in base alla possibilità di ristabilire una relazione sana con la persona che ci ha ferito o di allontanarcene, lasciandola andare senza che quel debito di dolore ci sarà mai ripagato.
In questo secondo caso, quando il torto che abbiamo subito non verrà mai riparato da parte dell’altro attraverso scuse, gesti di pentimento, comportamenti atti a restituirci cura e comprensione, il percorso del perdono dovrà volgere verso l’accettazione che nulla ci tornerà mai indietro. Questo concetto è espresso nel termine ebraico Mechilah (מחילה), in cui il perdono è inteso come l’atto di cancellare un debito, in modo immediato e completo.
Tornando quindi alla rabbia e alla paura che si cela sotto, possiamo dire che solo il cambiamento del legame malato con chi ci ha fatto del male o il definitivo lasciar andare quella persona ci può permettere di vivere senza quella sofferenza.
Posso tornare a stare meglio solo quando, in un processo di rinegoziazione con l’altro, posso dirmi consapevole dei bisogni che l’altro ha ferito in me ma che io posso imparare a soddisfare e far rispettare. Oppure, nel caso in cui la relazione con l’altro non sia più possibile, dovrò accettare che non ho più bisogno dell’altro per sanare la mia sofferenza, l’altro non mi è più debitore per il torto che mi ha inflitto, posso allontanarmi da quel dolore senza aspettare che più nulla mi sarà ridato indietro.
“La maggior parte di noi si comporta in questo modo. Non abbiamo alcuna voglia di tornare a noi stessi, abbiamo voglia di correre dietro all’altro per dargli una lezione. Se la tua casa va a fuoco, la prima cosa da fare è cercare di spegnere l’incendio, non correre dietro alla persona che credi l’abbia appiccato. Mentre insegui il presunto incendiario la tua casa finirà distrutta fra le fiamme. Non è saggio! Devi dirigerti verso la casa e cercare di spegnere l’incendio. Lo stesso discorso vale quando ti arrabbi: se continui a interagire con l’altro, a litigare con lui, se cerchi di punirlo, agisci proprio come uno che corre dietro all’incendiario mentre tutti i tuoi averi se ne vanno in fumo” (Spegni il fuoco della rabbia, Tich Nath Hahn)





