Disturbo borderline di personalità

“Un dolore di vivere,

di muoversi non solo 

da un giorno all’altro

ma di minuto in minuto, 

in cui ogni passo sembra impossibile,

 

sottostante e così onnipresente da essere parte della normale esistenza,

è la paura,

che è senza forma o oggetto

come essere paralizzati 

da un opprimente senso di vuoto.”

 

(Russell Meares, 2012)

 

 

Il Disturbo Borderline di Personalità (BPD, Borderline Personality Disorder) viene diagnosticato in presenza di:

una modalità pervasiva di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore e una marcata impulsività comparse nella prima età adulta e presenti in vari contesti, come indicato da cinque (o più) dei seguenti elementi:

 

  • sforzi disperati di evitare un reale o immaginario abbandono;
  • un quadro di relazioni interpersonali instabili e intense, caratterizzate dall’alternanza tra gli estremi di iperidealizzazione e svalutazione;
  • alterazione dell’identità: immagine di sé e percezione di sé marcatamente e persistentemente instabili;
  • impulsività in almeno due aree che sono potenzialmente dannose per il soggetto (quali spendere, sesso, abuso di sostanze, guida spericolata, abbuffate);
  • ricorrenti minacce, gesti, comportamenti suicidari o comportamento automutilante;
  • instabilità affettiva dovuta a una marcata reattività dell’umore (esempio episodica intensa disforia o irritabilità e ansia, che di solito durano poche ore e, soltanto più raramente più di pochi giorni);
  • sentimenti cronici di vuoto;
  • rabbia immotivata e intensa o difficoltà a controllare la rabbia (esempio frequenti accessi di ira o rabbia costante o ricorrenti scontri fisici);
  • ideazione paranoide o gravi sintomi dissociativi transitori, legati allo stress.

 

Il BPD attualmente è, fra i disturbi di personalità, quello più diffuso nei servizi psichiatrici.

Ad oggi si considera che la sua prevalenza sia da stimarsi intorno al 2 per cento nella popolazione generale, con una maggioranza di individui giovani ( 18-35 anni). Rispetto alla prevalenza nel genere femminile, malgrado la diffusa opinione comune, il dibattito scientifico pone ancora numerosi dubbi (Bjorklund, 2006, Garnt et a al, 2008).

 

Un terzo delle persone con BPD sembra avere con l’andare del tempo una remissione spontanea dei sintomi più gravi (instabilità del senso di sé, impulsività, autolesionismo, comportamenti suicidari, tendenze aggressive e relazioni tumultuose) (American Psychiatric Association, 2010) mentre i sintomi residuali di paura dell’abbandono, sentimenti di vuoto e vulnerabilità alla disforia sembrano mantenersi (Karaklic et al, 2010).

Il disturbo comporta un elevato costo sociale, sia in termini diretti, relativi alle cure per la stessa patologia, sia in termini indiretti, dato che gli individui che ne soffrono non riescono, nella maggior parte dei casi, a trovare una collocazione in ambito professionale, pur guadagnando negli anni un discreto funzionamento sociale (Zanarini et al, 2010).

All’interno di questa categoria diagnostica afferiscono individui dalle caratteristiche più varie (soggetti dal tipico atteggiamento aggressivo e provocatorio ed altri tipicamente introversi, ritirati e autolesivi) e con grado di patologia molto variabile.

Soggetti che trascorrono vite apparentemente normali e che, seppure con intense oscillazioni, riescono a mantenere impegni lavorativi e a costruirsi legami affettivi, possono condividere questa diagnosi con individui con basso funzionamento della personalità che, soggetti a crisi gravi e frequenti, finiscono per trascorrere gran parte della vita entrando ed uscendo dai servizi psichiatrici o in condizioni di totale emarginazione.

Grazie ad una valutazione dimensionale che permetterà di assegnare dei livelli (da 0 a 4) nel funzionamento della personalità (criterio A: funzionamento del sé e interpersonale), il prossimo DSM V prevede che si possa indicare in che grado sia presente il disturbo, permettendo una distinzione tra individui che ricevono la stessa diagnosi (APA DSM-V Development).

 

A fronte di questa vasta eterogeneità il criterio nucleare della patologia Borderline, così come lo definisce il DSM IV-TR, è da rintracciarsi nell’instabilità emotiva e nella difficoltà di controllare il comportamento impulsivo.

 

 

OPPIOIDI ENDOGENI

 

Secondo Bandelow, Schmahl et al. (2010) alcuni sintomi caratteristici del Disturbo borderline di personalità (BPD), come le condotte auto lesive, le restrizioni dal cibo, i comportamenti aggressivi e la ricerca continua di stimoli estremi possono essere visti come risultanti di una disfunzione del sistema degli oppioidi endogeni. Il soggetto farebbe fronte a questa disfunzione incrementando il livello di endorfine disponibili.

Spesso, lo stato di inquietudine o l’umore depressivo è associato dalle stesse persone ad una condizione avvertita come “dolore interno”.

Stanley e Siever (2010), così come Prossin (Prossin et al. 2010) sottolineano il ruolo del sistema degli oppioidi anche nella gestione del sentimento del dolore e nel deficit di funzionamento sociale tipici dei pazienti con Disturbo borderline di personalità.

 

Sappiamo che la classe degli oppioidi endogeni (endorfine, encefaline, dinorfine e nocicettine/orfanine FQ antagoniste), agisce su un sottotipo di recettori proteici, tra cui i recettori dei μ-oppioidi, di cui è nota la funzione analgesica.

Gli autori suggeriscono un particolare coinvolgimento di questo sistema di recettori nella regolazione affettiva e sociale associata col disturbo borderline di personalità, mediando la disposizione di vulnerabilità interpersonale e la sensazione di “dolore intrapersonale” tipico di questo disturbo. Gli autori propongono un modello di comprensione del disturbo alla luce della vulnerabilità o disregolazione del sistema degli oppioidi, postulandone una bassa attività basale e una compensatoria ipersensibilità dei recettori μ-oppioidi. Questa porterebbe a una risposta intensificata a seguito di aumenti transitori di oppioidi, conseguente agli stimoli dolorosi. Gli autori riportano come bassi livelli di oppioidi basali riflettano una sensazione soggettiva di “morte interna”, disforia cronica e mancanza di un senso di benessere, tutte caratteristiche del disturbo borderline di personalità. Sottolineano, inoltre, come questo tipo di pazienti tendano ad abusare di rimedi per il dolore su base oppiacea, e riportano come il naltrexone, un antagonista degli oppioidi, abbia buoni risultati terapeutici nei soggetti borderline autolesionisti.

 

A seguito di questi dati sperimentali e delle conseguenti interpretazioni, New e Stanley (2010) sono arrivati alla formalizzazione di un modello teorico di comprensione dei principali sintomi del Disturbo borderline di personalità, sulla base di una disfunzione del sistema degli oppioidi endogeni.

Il dubbio che viene da porsi riguarda la prospettiva attraverso cui leggiamo questi dati.

 

Ma, viene da chiedersi, questa disfunzione nel sistema degli oppioidi endogeni nelle persone con disturbo  borderline è la causa o la conseguenza di una determinata maniera di sentirsi e fare esperienza di se stessi?

Sono i bassi livelli di oppioidi a determinare una sensazione soggettiva di “morte interna” o è una maniera di far esperienza di queste persone, continua e costante, in cui è l’emotività negativa diffusa ed il costante utilizzo di sostanze oppiacee a determinare lo squilibrio bio-chimico riportato da questi studi?

Questa seconda prospettiva, porterebbe a leggere la disfunzione del sistema degli oppioidi in queste persone, non come la causa ma come il manifestarsi di una particolare maniera di sentirsi del soggetto, reiterata nel tempo. La comprensione del “come” queste persone facciano esperienza di sè, nei vari contesti, tanto da determinare una modificazione degli equilibri fisiologici, è ciò che darebbe forma a questi dati, calandoli nell’esperienza reale dei soggetti.

 

 

ORIGINE ED EVOLUZIONE

DELLA DIAGNOSI DI DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ

 

Le origini del termine Borderline, come concetto che rimanda ad un quadro sindromico, devono farsi risalire alla fine degli anni ’30.

In quegli anni Stern (1938) identifica un gruppo di pazienti che, non rientrando né tra criteri diagnostici della psicosi né tra quelli della nevrosi, si trovavano ad essere in una zona di confine della sofferenza mentale (borderline group of patients).

Dopo gli anni ’60, in ambito psicodinamico, il dibattito si concentra sull’indagine di una specifica organizzazione di personalità, con manifestazioni cliniche polimorfe (Grinker, Masterson, Risley, Kernberg).

Nella classificazione di Kernberg, basata sulla gravità della patologia delle relazioni oggettuali, l’Organizzazione Borderline di Personalità è collocata tra psicosi e nevrosi, ed è intesa come una condizione non fluttuante tra queste due modalità ma come uno stadio a sé stante di gravità patologica. Essa è vista dall’autore come una organizzazione della personalità che accomunerebbe una serie di disturbi di personalità indicati dal DSM IV-TR (narcisistico, antisociale, paranoide, istrionico, dipendente, evitante, schizotipale e disturbo di personalità borderline) (Caligor E., Kernberg O.F., Clarkin J.F. 2012).

Anche Meissner (1984), a distanza di pochi anni dall’introduzione del Disturbo Borderline di Personalità nel DSM III, torna a parlare di una categoria che definisce “spettro borderline” e propone di intenderla come un continuum in cui si collocherebbero disturbi che vanno dal polo isterico a quello schizoide.

A Gunderson e collaboratori si devono i contributi maggiori rispetto alla definizione di uno specifico “tipo borderline”, concetto che precede l’operazionalizzazione dei criteri diagnostici per questo disturbo, resa possibile dall’introduzione della DIB (Gunderson et al. 1981), intervista diagnostica per pazienti borderline. Questo strumento, nella sua forma riadattata, viene tuttora utilizzata nei servizi psichiatrici.

 

È interessante accennare la prospettiva storica di Meares, fondatore della psicoterapia Conversazionalista, che nel suo ultimo libro (Meares R, 2012), sostiene che, per un’indagine accurata riguardo al nucleo patologico del BPD, non si possa prescindere dal considerare l’ Isteria come il predecessore storico di questo disturbo.

L’autore sostiene che con la scomparsa graduale del concetto di isteria, il BPD si è imposto all’attenzione del mondo psichiatrico occidentale come nuova malattia caratteristica dell’era post-moderna, definita da alcuni come l’epoca della modernità liquida.

Meares delinea un ‘area di sovrapponibilità fra i due disturbi, riprendendo da Janet le caratteristiche tipiche delle pazienti isteriche e delineando la “desagrégation psychologique” (dissociazione) come tratto che accomuna le pazienti isteriche ai soggetti con disturbo borderline di personalità

 

Attualmente il disturbo viene identificato come una categoria diagnostica a sé, pur continuando ad essere uno dei temi più dibattuti in ambito di disturbi di personalità. Solo nell’ultimo anno, infatti, circa la metà degli articoli pubblicati sul Journal of Personality Disorders, hanno come argomento il BPD.

La maggior parte di questi studi ha come scopo quello di dimostrare una correlazione tra il disturbo e i diversi stili di attaccamento, prevedendo in alcuni casi indagini ulteriori sui tratti di personalità (es. BIG FIVE).

Avvalendosi della vasta letteratura prodotta sul tema negli anni passati, il gruppo di ricerca per la revisione del DSM, che ha portato alla pubblicazione del  DSM V, ha proposto alcuni cambiamenti alla definizione della diagnosi BPD.

Così come per gli altri disturbi di personalità, la revisione per il DSM V, prevede una distinzione delle manifestazioni sintomatologiche del BPD all’interno dei tre ambiti del funzionamento del Sé, delle relazioni interpersonali e delle caratteristiche dei tratti di personalità.

Di particolare rilevanza, nella sezione dei tratti di personalità specifici per questo disturbo, è la definizione di “affettività negativa”, che sottolinea come in questi soggetti l’umore non sia oscillante come avviene nei Disturbi Bipolari tra episodi depressivi ed episodi maniacali o ipomaniacali ma che il tono dell’affettività sia stabilmente tendente verso una negatività generale (American Psychiatric Association, DSM-V Development).

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